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Transcrizione automatica dell’intervista al Professor Adolfo Scotto di Luzio
Introduzione e presentazione
Studente 1: Vorrei ringraziare il Professore Adolfo Scotto di Luzio per la sua disponibilità. Come prima domanda, potrebbe presentarci brevemente cosa studia, quali sono i suoi campi di ricerca, ed eventualmente cosa l’ha spinta a concentrarsi su questi studi?
Prof. Scotto di Luzio: Io sono uno storico contemporaneo, mi sono formato a Napoli negli anni Ottanta, nella seconda metà degli anni Ottanta. Mi sono occupato a lungo di storia culturale del fascismo. Ho dedicato molti anni della mia carriera universitaria alla storia del sistema scolastico italiano in generale e alla storia dei fenomeni educativi. Adesso mi sto occupando di storia culturale europea al passaggio tra Ottocento e Novecento.
Discussione sulle indicazioni ministeriali e la concezione occidentale della storia
Studente 2: Ho visto che uno dei motivi che ha stimolato questo incontro riguarda le indicazioni ministeriali. Potrei leggere brevemente l’incipit delle indicazioni ministeriali, perché ci sono degli spunti che possono essere oggetto di controversie anche all’interno della comunità accademica:
“Solo l’Occidente conosce la storia, ha scritto Marc Bloch. Greci e latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici e nella durata, dunque nella storia, si svolge il gran dramma del peccato e della redenzione. Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni analitiche di dinastie o di fatti eminenti succedutesi nel tempo. Allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare, anche altre civiltà hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica, ma è rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo, quindi non segnando in alcun modo la propria cultura, come invece la dimensione della storia ha segnato la nostra.”
Studente 1: Io potrei proporre una riflessione. In triennale a Milano, ho notato come ci fosse molto eurocentrismo e in parte ho sofferto questa cosa, perché mi aspettavo, in un mondo molto globalizzato, di poter approfondire altre culture. La risposta dei professori è stata che in altri contesti la storia è differente perché mancano delle fonti scritte. Penso che, per quanto non sia il caso di scrivere una cosa del genere in un programma ministeriale, è vero che il cosiddetto Occidente ha un rapporto più profondo con un tipo di storia che intendiamo come cronaca degli eventi, degli eroi, eccetera. Non solo l’Occidente però, anche la Cina. Altrove effettivamente c’è stata più una storia trasmessa in modo orale, in cui i miti hanno assunto valore di storie, come è successo in realtà anche da noi. Da noi però, in Occidente, così come anche in Cina e qualche altra parte del mondo, la storia scritta è diventata importante. Forse il fraintendimento sta proprio in questo, cioè nel concepire la storia solo come testo scritto.
Prof. Scotto di Luzio: Forse bisogna fare alcune precisazioni. Il testo che ha letto all’inizio proviene da una delle pagine iniziali di un libro importantissimo che è “Apologia della storia” o “Il mestiere di storico” di Marc Bloch. È un testo scritto in clandestinità. Marc Bloch è stato un eroe della Resistenza, un ebreo che sarebbe stato ucciso dai nazisti. Si trova a riflettere sulla storia; il libro comincia da una domanda retorica: “A che serve la storia?”, ed è la domanda che un figlio fa al padre. È un libro molto drammatico, scritto senza la possibilità di ricorrere alla sua biblioteca personale o a libri disponibili in libreria. È un libro di un intellettuale francese che aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, che parteciperà attivamente alla resistenza all’occupante nazista in Francia e che si trova di fronte a un problema drammaticissimo: se il nazismo, Hitler, il suo progetto omicidiario siano come la risoluzione della storia dell’Occidente, cioè il punto verso il quale tutto confluisce, o se non sia possibile ritrovare altre ragioni, altre radici, e riflettere sul modo con il quale la cultura occidentale entra in rapporto con il passato.
Quando Bloch scrive “solo l’Occidente conosce la storia”, non sta dicendo che gli altri popoli sono senza storia, ma che l’Occidente ha elaborato nel corso del tempo un modo specifico di stare in rapporto con il passato, che non è soltanto la cultura accademica, ma è la costruzione della soggettività, il senso della temporalità, insomma tutto quello che definisce l’identità di un soggetto sia individuale che collettivo. Senza questo modo non ci sarebbe stata l’idea di rivoluzione, per fare un esempio. La rivoluzione è il modo di stare nel tempo di un soggetto che ha imparato a concepire se stesso sulla base di una struttura di pensiero che si è costruita nel corso dei secoli.
Un’ulteriore precisazione: noi conosciamo il passato attraverso i testi, ma i testi sono soltanto uno dei tramiti per mezzo dei quali entriamo in contatto con il passato. Tutto quello che siamo in grado di rinvenire è potenzialmente una testimonianza del tempo trascorso e del modo con il quale gli uomini sono stati dentro questo tempo. Non escluderei radicalmente che la storia sia essenzialmente una storia fatta con documenti scritti. Non è vero per nessuno, non è vero per la storia antica, non è vero per la moderna, tantomeno lo è per la contemporaneista. Si pensi all’importanza della musica, del cinema, delle immagini come fonti per uno storico. Direi proprio che non è affatto vero che noi entriamo in contatto con il passato solo attraverso il testo scritto.
Studente 2: Non mi riferivo al modo in cui oggi lo storico fa il mestiere di storico, ma mi riferivo al modo in cui tradizionalmente lo storico occidentale ha fatto lo storico occidentale fino a cento anni fa.
Prof. Scotto di Luzio: Se parliamo di Erodoto e Tucidide, che sono all’origine del nostro modo di entrare in rapporto con il sentimento del tempo, direi di no. Erodoto era un viaggiatore apertissimo alle culture che incontrava e che ci ha fornito un quadro di questa varietà delle culture. Tucidide era uno storico di natura diversa, e nella tradizione storica dell’Occidente confluiscono entrambe queste linee. Escluderei che gli storici abbiano ricostruito la storia solo attraverso testi scritti. Naturalmente il testo scritto è una componente essenziale della nostra cultura e quindi anche delle tracce che il passato ci lascia, ma non si può ridurre a questo la nostra cultura storica.
Sulla concezione della storia e il suo significato
Studente 3: Vorrei ampliare il discorso. Nelle linee guida viene trattata anche la concezione della storia come storia politica o come storia sociale o come storia economica. Se si pensa di avere solamente fonti scritte, penso anche alla storia economica, cioè come vivevano le persone… Durante questi anni di studio di storia, ho avuto l’impressione che spesso si studia solamente la parte più politica, che è molto interessante e utile per la comprensione del mondo odierno. Però mi chiedo anche quale sia il significato, cioè perché studiamo storia. La risposta che mi sono dato è decostruire il presente, capire che il mondo in cui viviamo è fatto in un certo modo ma non è sempre stato così. Se non studiassimo la storia, potremmo pensare che l’esistenza umana sia sempre stata questa. Mi chiedo come trasmettere questa consapevolezza.
Prof. Scotto di Luzio: Più che decostruzione, che è una parola troppo ambigua, troppo intrisa di allusioni di carattere filosofico, è vero che la storia a che ci serve ci serve a misurare la distanza che ci separa da un passato per noi significativo. In questo senso è una forma di conoscenza ed è sempre un pensiero relazionale: che cosa vale per noi questo passato, perché studiamo questo passato, perché a un certo punto ci concentriamo sull’Ottocento o sul fascismo o sul processo di decolonizzazione. La storia è sempre una forma di conoscenza di noi in relazione a qualcosa che non siamo più o dal quale ci vogliamo staccare definitivamente. In questo senso, la storia ci dà la misura del tempo trascorso, ci dà la misura di quello che siamo stati e non siamo più, e ci aiuta a definire le condizioni della nostra vita presente.
Le strade che lo storico sceglie – la storia delle società, delle strutture materiali, la storia della cultura, la storia politica – sono tutti percorsi che non si escludono l’uno con l’altro, ma concorrono alla definizione di un’immagine del passato. Naturalmente, questa immagine non sarà mai quello che è stato così come lo hanno vissuto coloro che erano presenti in quel determinato momento. Il nostro rapporto con il passato è un rapporto con qualcosa che non c’è più e che noi possiamo provare a riafferrare attraverso ciò che di quel passato ci resta.
Lo storico antico è in un rapporto con un soggetto molto diverso da uno storico contemporaneo, non foss’altro che le fonti che lo storico contemporaneo ha a disposizione sono infinitamente più ampie e variegate di quelle che ha a disposizione uno storico del mondo antico. Oltre al fatto che, quando la storia diventa una storia del tempo presente, un ulteriore elemento che entra in gioco è anche la nostra memoria personale. E la memoria è diversa dalla storia: la storia è un oggetto freddo mentre la memoria è una forma di conoscenza calda e soggettiva, intrisa di passioni ed interessi specifici.
Io mi sono formato sono entrato all’università in un momento in cui la tradizione liberale crociana era già in crisi da molto tempo e stava cominciando la crisi di un’altra grande tradizione storiografica, cioè il marxismo. Erano gli anni in cui andavano per la maggiore i libri della scuola storiografica francese, la storia della vita privata, la storia delle donne. In qualche modo io sono entrato in un quadro epistemologico di frantumazione dei grandi paradigmi. Mi sono formato all’interno di questa idea che non ci fossero più riferimenti forti, solidi e incontrovertibili.
Ogni epoca demolisce ciò che ha ricevuto e lavora a seconda delle suggestioni e degli interessi che sono quelli del suo tempo. Certamente, il vostro interesse per la storia del mondo, per la storia globale, è figlio di questa transizione. Non ci vedo niente di strano o di reciprocamente ostile. Fondamentalmente siete dei giovani studiosi che appartengono ad un altro quadro ideologico, altri sono i riferimenti politici. Per la mia generazione contava ancora l’idea che la classe operaia avrebbe liberato i popoli colonizzati abbattendo il capitalismo nella metropoli imperialista. Capite bene dalla stessa formulazione che questa cosa è piuttosto superata, però quello è stato sicuramente un orizzonte all’interno del quale è avvenuta la mia formazione.
Sull’Occidente e il suo ruolo nella storia
Studente 2: Abbiamo parlato del globalismo. Ora, cosa è l’Occidente in questo mondo? Tant’è che la storia è definita come “storia dell’Occidente” o “storia occidentale”. Posso fare questa domanda a voi e anche al professore?
Prof. Scotto di Luzio: Il ragionamento che va fatto è analogo a quello che faceva Bloch: “C’è Hitler, riassume la storia occidentale?” Direi di no. Il fatto che oggi ci siano brutti ceffi in giro per il mondo, fa sì che questa storia occidentale sia da rigettare in toto? Vorrei fare una domanda che è anche una riflessione: uno dei fenomeni sociali di grande rilievo che abbiamo di fronte è il fenomeno migratorio. Mi chiedo: la migrazione è un viaggio verso cosa? La mia risposta è che è un viaggio verso tre tipi di mete:
- La sicurezza personale: sono persone che scappano da luoghi in cui la vita è costantemente in pericolo.
- L’efficienza economica: sono persone che vanno alla ricerca di una condizione materiale migliore.
- La libertà personale dell’individuo.
È un viaggio che va in direzione di tre grandi questioni:
- L’habeas corpus, cioè il fatto che non ci può essere nessuna autorità politica che, al di fuori dalla legge, sfonda la porta di casa nel cuore della notte, prende qualcuno e lo fa scomparire.
- La razionalità economica, cioè l’organizzazione efficiente dei fattori della produzione, in nome della quale chi lavora può sperare di ottenere un salario giusto.
- L’individualismo, pensate alla questione femminile, è anche un processo di liberazione.
Habeas corpus, razionalità economica, individualismo: che cosa sono? Non sono valori occidentali? Li vogliamo buttare a mare? Spero di no. Allora vogliamo studiarli, senza pensare che questo sia per forza di cose la ripresa del colonialismo?
L’Occidente ha fatto cose terribili, il nazismo è figlio sicuramente dell’Occidente. Però è l’Occidente anche l’illuminismo. Adorno e Horkheimer avevano detto che il nazismo in qualche modo si spiega in nome della dialettica dell’illuminismo, però queste forse sono un po’ anche delle esagerazioni. C’è un proceduralismo, una gestione, che arriva all’indifferenza nei confronti del massacro di sei milioni di persone, però l’Occidente non è risolvibile in questo. Occidentali erano anche quelli che si battevano contro il nazismo. Questo è il mio punto di vista.
Studente 1 (Axel, studente turco): Posso aggiungere qualcosa? Per esempio, io studiavo la storia dell’impero ottomano e dei popoli dell’impero ottomano. Edward Said per noi era molto importante con il suo argomento sull’orientalismo. Poi alla fine “orientalismo” è diventato come un insulto pure per gli studiosi occidentali dell’Oriente. Ma questo argomento pure è creato da un concetto occidentale, cioè non è di Oriente, non siamo…
Prof. Scotto di Luzio: Non è che tutto è o bianco o nero. Non è che i buoni sono tutti dalla parte… Per esempio, nella Seconda Guerra Mondiale, siamo d’accordo nel definire che l’Armata Rossa stesse dalla parte dei buoni? I russi hanno pagato un prezzo altissimo a Hitler, credo che venticinque milioni di morti durante la Seconda Mondiale fossero solo russi, è un fatto clamoroso. Ma se leggete il libro di un grande storico inglese, di cui La Terza ha pubblicato la traduzione, le cifre degli stupri che i soldati dell’Armata Rossa compirono in una settimana a Vienna sono impressionanti. Possiamo dire così che la liberazione dell’Europa dal nazismo l’hanno pagata le donne tedesche e austriache con la violenza sessuale che hanno subito come preda di guerra di un’armata che aveva dovuto sopportare degli orrori terribili.
I russi hanno liberato l’Europa dal nazismo, ma quando sono arrivati in Europa si sono presi le donne tedesche come preda di guerra. Non c’è la possibilità di dividere in maniera netta il bene dal male; bene e male sono strettamente intrecciati. Però da un punto di vista storico, non dal punto di vista della memoria della vittima, possiamo considerare come dire provvidenziale la capacità che l’Armata Rossa ebbe di respingere la Wehrmacht e di ributtare i soldati nazisti a Berlino e di conquistare Berlino nel 1945, perché altrimenti oggi non saremmo qui a fare questa discussione.
La storia non concede a nessuno il potere di stabilire dove stanno i buoni e dove stanno i cattivi. I buoni sono al tempo stesso cattivi, e sono sicuro che nella Wehrmacht non c’erano soltanto assassini spietati, c’erano anche delle persone perbene che in un contesto diverso non si sarebbero mai sognate di fare quello che l’esercito tedesco e i nazisti nel loro complesso hanno fatto. C’è del bene e del male in ciascuno di noi. Non capisco perché si debba pretendere dalla storia che dia la possibilità di separarli poi nettamente.
Studente 3: Questa cosa si vede tantissimo nella figura di Atatürk. Sono appena stato in Turchia un semestre. Atatürk è considerato un semidio da tutti, anche dalle persone del suo partito. È considerato in questo momento delle proteste anche il simbolo della democrazia, nonostante la democrazia non sia mai esistita quando c’era lui. È stato il creatore della Repubblica, il leader dell’indipendenza, l’autore di tutte le riforme varie, però la democrazia non è mai esistita sotto di lui, anzi si è sviluppata dopo la sua morte con altri tipi di leadership. Mi è venuto in mente questo esempio perché è proprio l’emblema di quanto nella storia non sia tutto bianco o tutto nero, nonostante nel caso della Turchia la cultura politica è talmente polarizzata che sembra essere tutto bianco o tutto nero. In questo momento ci sono Erdogan e Atatürk…
Studente 1 (Axel): È un bell’esempio Atatürk, perché io sono cresciuto con la storia di Atatürk. La sua vita si insegna benissimo, chi è stato, le guerre che ha fatto. Alla fine lui era il capo, il leader… Viene sempre parlato di lui come un grande eroe o un uomo molto cattivo, ma non viene mai trattato storicamente. Prendi un turco dalla strada e chiedigli chi è Atatürk: ti racconterà una storia, una narrativa, però alla fine non si sa niente di lui storicamente. Non è un soggetto di storia, ma un soggetto di mitologia. Si è creato questo uso di lui nella notorietà pubblica. Tu dici che la democrazia turca è nata grazie a lui, ma in realtà le prime elezioni libere sono state dopo la sua morte. In Turchia la storia vive con noi, se ne parla sempre, però non è studiata. Non puoi dire niente su queste cose, non dico perché non ti permettono, però alla fine è diventata questa mitologia nell’arena dei concetti turchi. Non si fanno domande storiche sul mito.
Perché si insegna la storia
Studente 1 (Axel): Abbiamo parlato di perché si studia la storia, ma secondo me è molto più interessante chiedere perché si insegna la storia. Se io sono uno studioso, studio storia, bene, vado all’archivio, studio. Ma quando si insegna la storia, diventa un’altra cosa. Forse possiamo parlare di questa cosa?
Prof. Scotto di Luzio: Questa è una domanda interessante. Naturalmente le risposte possono essere varie, da quella più semplice “perché è nei programmi di studio e quindi bisogna studiarla”, a una risposta che ho provato a elaborare in questi anni. Io non soltanto studio storia, ma la insegno anche, e penso che sia giusto che i giovani imparino la storia.
Io credo che la storia sia un fattore indispensabile perché un individuo capisca il posto che occupa, dove si trova. Credo che il grande passaggio tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo sia stato il passaggio da un tipo di domanda a un’altra: mentre nell’Ottocento sembrava essere indispensabile la domanda “di chi sono figlio?” che risponde alla domanda “chi sono io, da dove vengo?”, nel Novecento la domanda diventa “dove mi trovo?”.
Lo studio della storia è un elemento fondamentale per la localizzazione del soggetto. È una localizzazione morale e sentimentale, e questa localizzazione, cioè la possibilità di rispondere alla domanda “dove mi trovo?”, è essenzialmente frutto dello studio della storia. Lo storico non è un antiquario, né uno che riesuma vecchie storie o oggetti polverosi. Lo storico è sempre qualcuno che si interroga intorno alla domanda “che cosa vale per me ciò che è accaduto, che cosa significa per me ciò che è accaduto”. E naturalmente il tipo di risposta varia non solo da storico a storico, ma varia anche da momento a momento e da epoca ad epoca.
Lo studio della storia dovrebbe anche servire a chiarire la coscienza dell’individuo e gli intenti dell’individuo, e quindi mettere l’individuo nelle condizioni di agire con consapevolezza. L’individuo non è necessariamente un individuo singolo, ma anche un individuo come soggetto collettivo, un individuo storico. Agire con consapevolezza, capire quali sono i propri compiti, quali sono gli strumenti a disposizione per perseguire gli obiettivi, interrogarsi sul senso del legame politico, cioè che cosa ci tiene insieme, quali sono le finalità, e quindi definire il repertorio dei fini e degli obiettivi che si vogliono perseguire, per capire cosa è giusto fare e cosa è ingiusto.
Il nostro tempo ci mette di fronte a questioni gigantesche: è giusto combattere in Ucraina? È giusto sostenere l’indipendenza e la libertà degli ucraini? In Medio Oriente la questione è ancora più complicata e intricata. Che cos’è giusto? Sono domande difficilissime. Quello che conta, se mi posso permettere, è che lo studio della disciplina storica dovrebbe servire a svelenire il dibattito, invece non è così purtroppo. È meno importante la risposta quanto piuttosto il rigore con il quale ci facciamo una domanda. Ognuno di noi può decidere se stare con i palestinesi o con gli israeliani, ci dividiamo sempre su questa linea di valori. Il problema è il modo con il quale affrontiamo le cose, sottraendoci alla stereotipia, al tifo, allo spirito di curva.
Lo studio della storia serve a disciplinare la mente. Non è l’unica cosa che serve a disciplinare la mente, però siccome la storia manipola degli oggetti che hanno direttamente a che fare con gli interessi collettivi degli uomini, allora forse questa operazione disciplinare è più profonda e più importante.
Provocatoriamente si potrebbe dire che la storia non ci insegna comunque da che parte stare nel presente. C’è la famosa frase credo di Reinhart Koselleck che dice che se la storia è magistra vitae, è sicuramente una magistra senza allievi, o con allievi che non apprendono quello che la storia insegna. Ma se noi prendessimo quello che la storia ci insegna, smetteremmo di sbagliare e quindi rinunceremmo alla libertà.
Sull’insegnamento della storia a scuola
Studente 3: Ritornando all’insegnamento della storia e all’insegnamento della storia in Italia, io ho insegnato storia nella classe di concorso di lettere, quindi italiano, storia e latino nel superiori, e poi alle medie italiano, storia e geografia. Mi sono reso conto che il modo in cui sono gestite le classi di concorso non ha assolutamente senso, e non lo dico solo io, lo dicono anche tanti colleghi nelle scuole.
Nel momento in cui le facoltà universitarie, le lauree diventano sempre più specialistiche – e per specialistiche non intendo banalmente che non c’è più “lettere e filosofia”, ma c’è la facoltà di storia e basta – queste classi di concorso per cui una persona che magari si è laureata in storia ma è entrata nella classe di concorso di storia e filosofia deve saper anche la filosofia, oppure se entra nella classe di concorso di italiano, storia, latino, deve sapere tutte queste cose… Qualche collega mi rispose: “Ma tu non devi saperle a livello accademico perché stai insegnando a dei ragazzi”. Ma io non sono d’accordo, perché se io devo insegnare a dei ragazzi, io voglio essere il più preparato possibile, il più competente possibile in quella materia, anche in modo da poterla semplificare e divulgare meglio. Non solo dal punto di vista di un’esposizione fine a se stessa, ma anche delle cosiddette metodologie didattiche alternative, che non sono possibili se tu hai studiato una materia o una disciplina in modo superficiale. Sei molto limitato in quello che puoi fare e nel modo in cui puoi trasmetterla. Quindi secondo me queste classi di concorso andrebbero aggiornate perché non rispecchiano più il mondo della formazione universitaria.
Prof. Scotto di Luzio: Sono molto d’accordo con quello che lei ha detto, e lo sposo in pieno. Io penso che la struttura dell’insegnamento sia largamente irrazionale e che purtroppo non c’è un collegamento organico tra mondo dell’università e mondo scolastico. Sulle classi di concorso, sul modo con il quale si reclutano gli insegnanti, sul modo con il quale il sistema dei crediti universitari contribuisce alla definizione dei requisiti di accesso alle classi di concorso, sono stati scritti moltissimi articoli, c’è solo l’imbarazzo della scelta. È un problema gigantesco, un problema che però sfugge largamente alla nostra determinazione; sono scelte politiche che il legislatore ha compiuto e che hanno prodotto il caos e gli esiti che sono sicuramente distorsivi.
Sono pienamente d’accordo, cioè non funziona. E poi spesso, siccome la possibilità di accedere alle classi di concorso è l’esito di calcoli puramente aritmetici – quanti crediti in una determinata disciplina, quanti crediti in un determinato gruppo di discipline – spesso si può accedere all’insegnamento di un gruppo di materie conoscendone una e non conoscendo l’altra. Hai voglia di dire che non è necessaria la formazione accademica perché tu non fai il professore universitario con dei bambini di otto anni o dei ragazzi di quattordici anni. Ma la tua preparazione universitaria dovrebbe servirti a poter poi insegnare in maniera adeguata a dei bambini di otto anni o dei ragazzi di quattordici anni. Se tu hai una scadente preparazione universitaria in alcuni segmenti del tuo insegnamento, è chiaro che il tuo insegnamento ne risente. Purtroppo la scuola è piena, senza che queste persone siano veramente responsabili, di docenti che sanno alcune cose e non ne sanno altre, che peraltro sono autorizzati anche dall’ordinamento scolastico vigente ad insegnare alcune cose e non altre. Sulla scuola e sul rapporto tra scuola e università sarebbe molto da dire, bisognerebbe affrontarla in una discussione ad hoc. Però la struttura è di una irrazionalità estrema, per quello che mi riguarda.
Sul metodo di studio della storia
Studente 3: Mi chiedevo, come far sì che appunto lo studio della storia abbia come fine ultimo appunto lo sviluppo intellettuale della persona, perché la persona possa capire in quale epoca sta vivendo?
Prof. Scotto di Luzio: Bisogna intenderci, perché se no tutta questa discussione diventa una discussione campata per aria. Quando parliamo di studio della storia, non parliamo del fatto che un ragazzo sfoglia un manuale e impara la lezione per poi andare davanti al professore. Questo ha a che fare con il rendimento scolastico, sono due cose diverse. Se noi ragioniamo invece sulle finalità generali che lo studio della storia, e quindi anche sugli obiettivi educativi – e educativi non è il voto che si prende all’interrogazione – qui si entra in un ordine completamente diverso di ragionamento.
Studiare la storia che vuol dire? Significa leggere gli storici, significa interessarsi delle cose che accadono nel proprio tempo, significa entrare in un rapporto intenso con le questioni culturali, con le questioni politiche, con le questioni ideologiche, significa andare al cinema, andare a teatro, leggere romanzi, ascoltare la musica. Tutte queste cose insieme, non una tra queste cose, tutte queste cose insieme. Perché se no non sappiamo di che cosa stiamo parlando.
Gli studenti non studiano, gli studenti preparano la lezione, preparano l’esame. Lo studio significa applicarsi con costanza, con dedizione, significa approfondire gli argomenti, significa leggere tutto ciò che suscita la curiosità. Tutte queste cose producono quegli effetti, ma gli effetti non si producono perché il nostro rapporto con la cultura è completamente al di fuori di questo tipo di perimetro.
Qualcuno di voi suona uno strumento musicale?
Studente: Suono il basso.
Prof. Scotto di Luzio: C’è un problema di tecniche diverse, la modalità della mano sinistra, c’è un problema di postura delle mani e del braccio rispetto allo strumento, c’è un problema di impugnatura, c’è un problema di utilizzo delle dita della mano destra, e così vale per il pianoforte. Ci sono delle tecniche. Quello che non capisco è perché quando uno impara a studiare o a suonare uno strumento musicale è disponibile a mettersi per una strada per la quale si fanno gli esercizi, si fanno le scale, si fa il solfeggio, cose generalmente molto noiose, che però sono essenziali perché poi uno possa padroneggiare lo strumento e suonare anche le cose più diverse. La musica è musica quando è veramente musica.
Non ho capito perché quando uno va a scuola deve fare lo storico, deve fare la ricerca, deve sviluppare anche un pensiero critico, tutto questo contemporaneamente. Ci saranno dei gradi attraverso i quali si passa. All’inizio devi studiare, devi studiare le date per esempio. Devi sapere che l’unità d’Italia è stata fatta in un certo anno, che la Seconda Guerra Mondiale si è conclusa in un certo anno, che il numero dei paesi che hanno combattuto era di un certo tipo, che le alleanze erano tali per cui nella Prima Guerra Mondiale i russi non erano alleati dei tedeschi e gli italiani non combattevano a fianco della Germania. Queste cose qui sono il fondamento, la base. Non è la storia, è chiaro, però è il presupposto fondamentale per la conoscenza storica.
Tutte queste cose che dovrebbero essere garantite dalla scuola oggi non lo sono più, per cui puntualmente ogni tanto vengono pubblicate statistiche che dicono che gli italiani non sanno chi è Mazzini, che gli italiani non sanno quando è caduto il fascismo e quando è nata la Repubblica. Venite a parlare con qualunque professore universitario e capirete qual è la disperazione. Ci sono delle cose che bisogna fare che sono faticose, ripetitive, noiose, ma che sono il mettere da parte alcune informazioni, alcuni mattoni con i quali si costruisce il proprio stare nel mondo. Poi a partire da questo, da queste basi, si sviluppano livelli ulteriori. Però se volete fare di un ragazzino immediatamente uno storico, è chiaro che non funziona così.
Anche la didattica per competenze, di cui forse poi bisogna parlare quando si parla della scuola, nasce dallo stesso equivoco. Se ho una approfondita conoscenza della letteratura di viaggio, posso costruire un percorso didattico sulla letteratura di viaggio, posso pensare di fare una riflessione su Ulisse, su Gilgamesh, su Enea, tre eroi che si sono messi in cammino, e così posso sviluppare delle riflessioni. Ma pretendere che tutto questo venga fatto da dei ragazzini che sì e no hanno letto un capitolo su un manuale, ecco questa è l’assurdità di quella organizzazione irrazionale degli studi scolastici in Italia, ma non solo in Italia.
Cosa sono le competenze? Quando si diventa competenti? Spesso si muore senza essere competenti. La competenza è che io so usare quello che ho appreso al di fuori del contesto del suo apprendimento. Se io so le tabelline a memoria ma poi vado dal salumiere e il salumiere mi fa il conto della spesa, non mi serve a niente sapere le tabelline a memoria. Però è anche vero che forse le tabelline sono la base fondamentale per quel calcolo mentale che mi permette poi di valutare adeguatamente il prezzo di una merce.
Se io so bene le regole della grammatica inglese ma poi sbarco a Gatwick e non so chiedere le indicazioni per raggiungere Victoria Station, è chiaro che la mia competenza inglese è scadente. Quando si diventa competenti? Questo è il grande problema. Se io demolisco l’impianto dello studio formale in nome del saper fare, poi non sempre si ottengono risultati soddisfacenti.
Quindi, quando noi diciamo “come si fa?”, la risposta è che ci vuole molta pazienza, ci vuole molto tempo e, soprattutto, cosa difficile da mandare giù, non tutti lo possono fare. Questa è una cosa sulla quale forse varrebbe la pena aprire una riflessione. La scuola è una scuola per tutti, bene, ma non è che tutti possono fare poi la stessa cosa e tutti possono arrivare allo stesso livello. Come si tiene insieme in una società democratica uguaglianza e disuguaglianza? Queste sono grandi questioni alle quali noi non vogliamo rispondere. Preferiamo rispondere “tutti, tutti, tutti”, ma non è così. Se così non fosse, non tutti possono fare gli storici. Io non potrei fare il chimico, per esempio, non potrei fare il commercialista, non capisco niente di conti. Però me ne faccio una ragione.
Studente 3: Voglio fare una piccola precisazione. La mia era una riflessione generale, è chiaro che va distinto l’insegnamento ai bambini rispetto a quello universitario. Quando dicevo “lo studio della storia che abbia come fine lo sviluppo intellettuale della persona”, mi riferivo all’evitare la costruzione di un mito, quando la storia viene utilizzata con fini politici. Ne abbiamo tanti esempi, penso a “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Da una parte può essere anche positiva la costruzione di una cultura comune, dall’altra però vorrei che il fine ultimo fosse lo spirito critico della persona. Per questo pensavo a insegnamento, apprendimento e ricerca, perché nel momento in cui io ho solo modo di apprendere la storia perché mi viene insegnata, devo per forza accettare la narrazione che mi viene data. Nel momento in cui metto in pratica lo studio della storia, che può essere su delle fonti o comunque con un approccio più critico, posso rendermi conto che magari è una costruzione, altrimenti si rischia di vedere il bianco e il nero nella storia.
Prof. Scotto di Luzio: Questo è un problema serio. Però, siccome questo è un problema che ci siamo posti quando abbiamo ragionato sui programmi di storia, ci siamo posti la questione di quali erano i compiti della scuola e dell’insegnamento rispetto ai fini che si prefigge. Fermo restando che naturalmente il compito dell’insegnante è quello di dire a chiunque, ai bambini, agli adolescenti: “Cari ragazzi, noi non conosciamo il passato per come è accaduto, noi conosciamo il passato per come ci è stato tramandato”. E naturalmente in questa sopravvivenza del passato attraverso le sue fonti entrano in gioco le intenzioni, nel senso che una società decide di preservare, di conservare alcune cose e di abbandonare al proprio destino altre cose.
Il rapporto con i monumenti è un modo con il quale noi abbiamo selezionato nel mondo antico alcune testimonianze e abbiamo deciso che quelle testimonianze rappresentavano la massima rappresentazione del valore che noi annettiamo all’antico. Possiamo anche dire che in questo c’è un pregiudizio: se la romanità è tendenzialmente marmorea, bianca, candida, altre espressioni artistiche sono state completamente cancellate.
Quindi c’è sempre un’intenzione. In altri casi, c’è un incendio che manda in fumo una biblioteca e noi perdiamo la gran parte delle opere del passato. Un insegnante, un buon insegnante, dice questo ai suoi allievi e sa trovare le parole per parlare ai bambini delle elementari, ai bambini delle scuole medie, delle scuole superiori.
Detto questo però, non è che possiamo continuare a ripetere in continuazione, giorno dopo giorno, che il passato esiste solo perché ci sono le fonti. Una volta che abbiamo chiarito questo punto, dobbiamo anche far appassionare i ragazzi al racconto del passato. In questo senso io penso che la narrazione sia una componente importante dello studio della storia. La storia non è solo racconto, è chiaro, la storia è un racconto controllato, perché noi sappiamo che quel racconto è l’esito del modo con il quale noi combiniamo le testimonianze. Però il racconto ci deve essere, perché in fondo che cos’è la storia? È quello che gli uomini hanno fatto, le loro passioni, anche le loro illusioni, anche i loro errori, e queste cose vanno restituite.
Io penso che ad esempio, visto che lei ha fatto allusione a quella frase (non si capisce bene chi l’abbia pronunciata, se D’Azeglio o qualcun altro) “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, è stata un’impresa di poco conto? L’Italia era un paese dominato da potenze straniere. Ad esempio, c’era una potenza occupante, era l’Austria direttamente occupante nel Lombardo-Veneto, e influente attraverso i rapporti di carattere dinastico. L’Italia era divisa in stati e staterelli che erano il frutto di una sconfitta storica che si era prodotta alla fine del quindicesimo secolo e nel corso del sedicesimo secolo. Dopo molti secoli questo paese riacquistava una sua soggettività politica. Costruire lo stato nazionale unitario dal nulla non è stata un’impresa semplice, è stata anche un’impresa appassionante.
Non abbiamo risolto il problema dei contadini meridionali, come ha detto Gramsci, imputando al Risorgimento di aver prodotto uno stato che era fortemente illiberale in alcune sue componenti. È vero, ma ditemi se c’è una storia perfetta da qualche parte. Bisogna raccontarla, perché se noi vogliamo compiere quell’operazione di localizzazione, allora non so perché un bambino non debba apprendere qualcosa circa il suo comune e la sua comunità di riferimento, debba apprendere qualcosa circa il suo stato di riferimento. Poi questo non significa chiudersi alla curiosità del mondo, anche perché è impossibile raccontare la storia italiana senza raccontare la storia del mondo, e per certi versi viceversa. Pensate che cosa è stata la storia mediterranea, che cosa è stata anche la storia dell’Europa moderna, tra arte ed economia, non solo arte, e la centralità che l’Italia ha avuto nell’elaborazione dell’Europa moderna.
Detto questo, io credo che non ci sia il rischio del nazionalismo, visto che questo è l’elefante nella stanza. Questo non dipende dal fatto che si insegna la storia d’Italia. Il nazionalismo dipende da altre cose, dipende da una deculturazione semmai delle comunità nazionali, da un indebolimento ideologico delle comunità nazionali, non certo dal fatto che le comunità nazionali vengono acculturate. Non c’è nessun legame di causa ed effetto tra i programmi di storia e le ideologie che si diffondono in una determinata comunità.
Certo, se dovessimo insegnare la storia nelle scuole italiane dicendo che gli albanesi o i turchi o gli africani sono dei selvaggi e noi italiani siamo i portatori della civiltà, e quindi facciamo attenzione perché fra un po’ verremo invasi… Però queste sono delle assurdità che si sentono sui social, si sentono in televisione, qualche idiota forse le ripeterà anche in classe, però non è che i programmi di storia spingono in questa direzione. Manterrei una distinzione, se no non capiamo più di che cosa stiamo parlando.
Sull’identità e la globalizzazione
Studente 2: Pensavo alla questione dell’identità, cioè la questione della perdita dell’identità in un mondo globalizzato in cui il centro del mondo diventa sempre tutto molto omologante, la prospettiva diventa sempre più ampia. Si perde, o all’opposto si cerca di ottenere un’identità più vicina, di ricostruire identità che siano più vicine a noi, quindi le comunità più strette, quindi anche lo stato nazionale. Quello che penso io è che effettivamente bisogna essere sempre consapevoli del fatto che avere vari gradi, vari livelli di identità – che sia quella con la comunità all’interno della quale si vive, la città o lo stato nazionale – siano secondo me essenziali anche per non perdersi, per non sentirsi alienati rispetto al mondo che è sempre così tanto vasto e che tende alla globalizzazione anche nell’ambito degli studi, nell’ambito delle prospettive.
Prof. Scotto di Luzio: Ho capito qual è la sua preoccupazione, cioè dal punto di vista psicologico soggettivo. Se le persone studiassero ad esempio a scuola direttamente una storia intesa in senso globale, secondo me avrebbero più difficoltà a orientarsi, difficoltà ad avere dei riscontri di quello che studiano, e quindi questo ne risentirebbe anche nella loro personale psicologia e nel loro sentirsi orientati all’interno del mondo in cui vivono, nel loro avere dei riferimenti più vicini e più precisi rispetto al mondo in cui vivono.
Io penso che su questo tema dell’identità ci sia un eccesso di apprensione. Mi spiego: io credo che il problema riguardi la vita intima, la psicologia di una persona, nel senso che l’identità personale è una combinazione di una serie di fattori che sfuggono largamente alle maglie del discorso che stiamo facendo.
Faccio un esempio: lo stato-nazione, di cui si parla generalmente male, è però l’unico ambito concreto all’interno del quale le persone possono esercitare i propri diritti politici, civili e sociali. Cioè, se io ho qualcosa da rivendicare o spero di ottenere qualcosa, lo posso fare nel mio paese. Non esiste l’espressione “cittadino del mondo”, è un’espressione simpatica, dice qualcosa soprattutto per chi ha la possibilità di viaggiare e quindi ha una certa fortuna a disposizione. Ma per il resto, se io devo battermi per la libertà politica, se io devo battermi per un aumento delle pensioni, per un miglioramento del sistema sanitario, lo posso fare soltanto all’interno di un perimetro molto preciso. Ed è all’interno di questo perimetro che le parole come “cittadino”, “cittadinanza” assumono un significato concreto, perché è in quanto parte di questo stato che io posso rivendicare dei diritti.
Quello che noi – dico noi perché penso che i colleghi con i quali ho condiviso questo lavoro sui programmi di storia condividono questo punto di vista – riteniamo è che si debba qualificare culturalmente il rapporto tra il singolo e questo ambito politico concreto al quale appartiene. Qualificarlo culturalmente, cioè non esclusivamente in termini di interessi: “tasse che si pagano, tasse che non si vogliono pagare, servizi che si pretendono e servizi che non si pretendono”. Quello che io sostengo è che ci debba essere fondamentalmente un legame culturale che tiene insieme le persone. E la scuola e lo studio della storia – non solo, ma tra questi lo studio della storia – hanno come compito quello di qualificare il rapporto politico tra il cittadino e l’ambito della sua cittadinanza.
Cioè, sapere quando ti giri per una città che cosa significano le testimonianze architettoniche, sapere come si spiega la forma di quella città, figlia di quale passato, figlia di quali conflitti. Ad esempio, capire che cosa sono le istituzioni democratiche, che cos’è il Presidente del Consiglio, che cos’è la Camera dei Deputati, che cos’è il Senato. Capire perché certe strade sono intitolate a certe persone. Tutto questo innanzitutto serve a quella localizzazione: io non sto in uno spazio neutro, ma sto in uno spazio che continuamente rimanda al sentimento di stare a casa. E questa casa però è fatta appunto di storia. Sapere queste cose forse serve ad avere un’immagine meno sbiadita del mondo che ognuno di noi ha avuto in sorte di avere.
Poi la globalizzazione… Sì, è vero, siamo in una fase di globalizzazione, siamo in una fase in cui la globalizzazione oggi è oggetto di una profonda revisione. Però che significa essere globalizzati? Solo perché tutti beviamo la Coca-Cola o vestiamo o ascoltiamo la stessa musica? Però poi gli inglesi si sentono inglesi, i francesi si sentono francesi, gli americani si sentono americani, i palestinesi vogliono la Palestina, i turchi vogliono la Turchia. Poi forse i turchi vogliono Erdogan o non vogliono Erdogan, noi vogliamo la Meloni o non vogliamo la Meloni, però queste sono appunto la possibilità di poter agire politicamente, perché questa azione politica è stabilita in un perimetro. Io posso essere indignato per Erdogan, ma non è che Erdogan è una mia preoccupazione personale. E per l’amico [Axel], credo che la Meloni sia un motivo di indignazione, ma fino a un certo punto, perché poi lui è uno studente turco in Italia e credo che abbia più a cuore le sorti del suo paese che le sorti dell’Italia.
Studente 1 (Axel): Sì, naturalmente. Io sono uno studente universitario a Bologna e quindi voglio anche sapere in che paese studio.
Prof. Scotto di Luzio: Però forse ti dice di più un canto turco che un canto italiano. Ecco, questo vale per tutti: questa è l’identità. Non è niente di pericoloso, niente di minaccioso. Poi l’uso che se ne fa è diverso. Però qui stiamo parlando semplicemente di studio, di libri. I libri non hanno mai ammazzato nessuno. Solo Pinocchio li tirava in testa ai suoi compagni, però in quel caso possono far male. Però diciamo così, per il resto l’ho sempre intesa in modo positivo.
Studente 2: La ringrazio molto per la risposta, perché è stata molto esauriente e bella.
Studente 3: Quando dice che i libri non hanno mai ucciso nessuno, vorrei dire che il contenuto dei libri… spesso le persone nel passato si sono scontrate per contenuti scritti nei libri.
Prof. Scotto di Luzio: I libri sono stati scritti per giustificare la ragione per la quale gli uomini si scontravano. Gli uomini si scontrano, questo è un fatto. Poi cerchiamo di spiegarci perché lo facciamo. Però gli uomini si scontrano, e questo è un altro aspetto che forse la storia serve ad affrontare: la pace, la guerra.
Sulla guerra e il conflitto
Studente 3: Penso a questo punto quello che dicevo prima, se la storia maestra non ha allievi, appunto a volte si studia la storia con l’intento di non ripetere gli stessi errori. Mi chiedo cosa… come società, perché adesso… io spero che la Seconda Guerra Mondiale sia stata l’ultima guerra in Europa. Però allo stesso tempo stiamo vivendo delle situazioni a livello globale anche destabilizzanti in qualche modo. Quello che volevo dire è: nel senso, è frutto di come abbiamo studiato la storia il non riuscire a comprendere… cioè, veramente la storia non può insegnare nulla, oppure la storia sì o no sul passato potrebbe insegnarci qualcosa?
Prof. Scotto di Luzio: La storia, quella è stata più una boutade, però la storia non insegna nulla? In parte non insegna nulla, in parte insegna qualcosa. Ad esempio, perché non scoppia più una Prima Guerra Mondiale? Perché probabilmente, a differenza del mondo che nell’estate del 1914 precipitò in un conflitto che sarebbe diventato appunto la Prima Guerra Mondiale, oggi esistono una quantità di luoghi istituzionali internazionali attraverso i quali, per non dire poi di tutte le tecnologie dell’informazione e della comunicazione… Durante la Prima Guerra Mondiale, le decisioni o le comunicazioni delle sedi diplomatiche alle cancellerie europee arrivavano con una lentezza significativa, per cui una volta che si era messa in moto la macchina della mobilitazione non si poteva più fermare. Oggi è possibile fermarsi fino a un attimo prima e ci sono un sacco di luoghi o di camere di compensazione in cui i conflitti possono trovare una mediazione.
Quindi il mondo è sicuramente un mondo che è andato molto più avanti di quanto si potesse immaginare nel 1914. È avvolto da una rete di rapporti che ha il compito anche di tenere sotto controllo – la famosa frase di Obama “non facciamo sciocchezze” – dice di una consapevolezza che oggi ci tiene per fortuna al di qua dei casi di precipitare. Ora questo però non significa che questa trama di istituzioni internazionali non possa essere lacerata, che non ci possano essere figure – vediamo quello che sta succedendo in Ucraina, quello che sta succedendo in Medio Oriente – che fondamentalmente se ne infischiano o hanno dalla loro una forza o l’idea di possedere una forza che gli permette di ignorare i moniti della comunità internazionale, le pressioni internazionali.
Quindi il problema è però che l’idea che il mondo, che la storia dell’umanità possa evolvere nella direzione di un’abolizione del conflitto è un’idea non soltanto a mio avviso ingenua, illusoria, ma forse non è neanche auspicabile. Perché se per noi la guerra è terribile, e a volte ci può sembrare assurda – naturalmente parlo da europeo, perché dal punto di vista di altre parti del mondo è molto diverso – ma se noi consideriamo la guerra sbagliata, la domanda che io vi faccio è questa: possiamo considerare le ragioni, possiamo considerare il fatto che milioni di uomini hanno partecipato a due guerre mondiali, una cosa senza senso?
Ecco, questo è il punto. Allora il problema non è amare la guerra, il problema è che cosa fare se una guerra dovesse scoppiare e se la guerra dovesse riguardarci, se fossimo noi nella condizione in cui si trova l’Ucraina oggi. E poi i conflitti non sono soltanto la guerra, è la rivoluzione per esempio, che è un tema che è stato completamente bandito anche dalla coscienza occidentale, che è l’esercizio della violenza, esercizio a volte anche di una violenza brutale.
Ora, veramente si può immaginare che la storia dell’umanità possa raggiungere un punto nel quale niente più accade e tutto è storia del commercio? Perché poi questo è: la guerra dovrebbe essere l’interruzione dei rapporti commerciali dell’umanità, un mondo senza guerre, un mondo nel quale le relazioni e i conflitti che dovessero sorgere all’interno di queste relazioni verrebbero risolti attraverso dispositivi di carattere tecnologico-istituzionale. Si può immaginare che si vada in questa direzione? E si può immaginare che un mondo così sia auspicabile?
Anche perché bisognerebbe immaginare che in questo mondo i rapporti tra i popoli, i rapporti tra gli stati, i rapporti tra le aree geografiche siano rapporti pienamente paritari, e quindi non ci siano aree che si battono per migliorare la propria posizione, per strappare ai più forti condizioni più favorevoli. Certo, fino a quando reggono appunto quei luoghi di mediazione internazionale, si può sperare che questo accada all’interno di una normale negoziazione. Molto spesso il più forte resta il più forte anche nei luoghi della mediazione internazionale.
Ecco, il problema adesso, per scendere su un terreno più concreto, è che secondo me la storia insegna anche, e questo è un insegnamento importante, che in qualche modo il negativo, il conflitto, non può essere eliminato.
Studente 1 (Axel): Stavo dicendo una cosa ma poi l’ha detta lei, aveva anticipato: finché c’è disuguaglianza, non può che esserci conflitto.
Prof. Scotto di Luzio: L’uguaglianza sarebbe l’uguaglianza assoluta, la stasi. Adesso non vorrei tirare fuori la mia vecchia formazione marxista, però fondamentalmente il mondo è un continuo movimento dialettico in cui qualsiasi equilibrio è un equilibrio momentaneo, che viene immediatamente messo in discussione dalla inesauribilità dei rapporti storici. Ecco, io in questo senso penso che la storia in sé insegna qualcosa, insegna che la dimensione del conflitto è una dimensione ineliminabile. E in fondo il conflitto produce anche guerre, però produce anche il progresso dell’umanità, costringe gli uomini a fare i conti con il negativo e a trovare delle soluzioni.
In fondo, noi abbiamo avuto la guerra, però la guerra ci ha permesso di avere degli organismi internazionali che dovevano tenere insieme i paesi e cercare di evitare che le controversie internazionali diventassero controversie militari. L’umanità è salita di grado dopo la Seconda Guerra Mondiale, e perché ha dovuto trovare delle risposte ai problemi posti dalla Seconda Guerra Mondiale.
La Prima Guerra Mondiale aveva lasciato sul tappeto tutta una serie di questioni irrisolte, ad esempio le nazionalità dell’Europa orientale senza stato, le ambizioni imperialistiche degli stati europei, e la Seconda Guerra Mondiale è stata una continuazione fondamentalmente della Prima Guerra Mondiale. Abbiamo fatto tesoro di quell’esperienza, abbiamo creato delle istituzioni che hanno permesso soprattutto all’Europa di risparmiarsi altre sofferenze atroci come quelle vissute nei trenta anni compresi tra il 1914 e il 1945. Altre parti del mondo non hanno conosciuto questa storia, passeranno, stanno passando attraverso fasi di scontri e violenze e sofferenze. Si spera, è auspicabile che queste sofferenze possano finire. Però insomma, la storia ci mette di fronte ad uno spettacolo che non è molto rassicurante. È entusiasmante, ma non rassicurante, perché in fondo cosa vediamo? Vediamo lo sforzo continuo che gli uomini hanno fatto per venire a capo delle difficoltà con le quali hanno dovuto fare i conti. Questa è la lezione della storia dal mio punto di vista.
Studente 2: Pensavo, guardando anche l’orario, per cui con loro ho detto più o meno verso le dodici e trenta, non volevo strafare. Però un’altra domandina, o meglio una riflessione su quello che ha detto, cioè nel senso che effettivamente il conflitto può essere positivo, anzi forse a volte il conflitto può essere anche auspicabile, nel senso che effettivamente emergano dei contrasti e questi contrasti vengano affrontati, non seppelliti. Allo stesso tempo penso che una guerra mondiale sia sicuramente non auspicabile.
Prof. Scotto di Luzio: Direi proprio di no. Però ripeto, è compito degli uomini impedire che il male possa vincere. Naturalmente è il compito degli uomini, di una società, di un’epoca, quello di evitare di precipitare in un baratro. E in questo sforzo – questo non vuol dire che il conflitto non c’è – il fatto che una guerra non scoppia non vuol dire che non c’è il conflitto, vuol dire che le forze che prevalgono contro l’ipotesi che il conflitto deflagri sono maggiori rispetto a quelle che vanno nella direzione della deflagrazione. E questa è una tensione, una tensione morale tra forze che spingono in direzioni diverse. Ed è all’interno di questa tensione che nasce il positivo della storia, e nello sforzo continuo che noi facciamo di impedire che il peggio accada, che la storia va avanti.
In questo senso, c’è una dimensione morale nella storia dell’umanità che non è il fatto che la guerra non scoppi, ma è il fatto che l’umanità, di fronte al pericolo che la guerra scoppi, mette in atto delle azioni, mette in atto dei comportamenti, crea delle istituzioni, genera dei valori, dei pensieri, delle riflessioni che trattengono l’umanità dal precipitare nel baratro della guerra. È chiaro. Speriamo che effettivamente non si finisca in questo baratro.
Studente 2: Bene, grazie. Axel, hai qualche osservazione da fare?
Studente 1 (Axel): No, no. Va bene così.
Studente 2: Se non abbiamo nulla da osservare, se il professore non ha nient’altro da aggiungere…
Prof. Scotto di Luzio: No, no. Possiamo concludere qui.
Studente 2: Bene. Volevamo ringraziarla.
Prof. Scotto di Luzio: Grazie a voi. La conversazione è stata molto interessante. Benestante, ragazzi.
Studenti: Grazie, arrivederci.
Prof. Scotto di Luzio: Arrivederci. Spiegazione mille.